La Turchia è, senza ombra di dubbio, un mondo da scoprire. Nasce sul confine tra la civiltà occidentale e quella orientale ed ospita più di ottanta milioni di abitanti in un mix infinito di tradizioni e culture.
Visitare la Turchia significa abbandonarsi ad un ritmo di vita incredibilmente diverso da quello a cui siamo abituati. Perdersi tra le viuzze di Istanbul, Smirne, Bursa significa venire sopraffatti da profumi, colori e suoni.

Il territorio è talmente ampio (quasi tre volte quello italiano) che si presta ad infiniti itinerari.
Noi abbiamo deciso di passarci undici giorni, concentrando la maggior parte del tempo in Cappadocia. Fermarsi ad Istanbul pensiamo sia d’obbligo, ma anche la costa occidentale offre scorci non indifferenti.
Vi lascio ora alla lettura delle nostre solite (dis)avventure!
ISTANBUL
Il primo contatto con la Turchia lo abbiamo a Milano Malpensa con Turkish Airlines. Per la prima volta nella nostra vita, la lettura di “gate opening at 10:00” si traduce con un gate che apre davvero all’orario indicato. Siamo sbalorditi da quello che stiamo vivendo… e lo spettacolo non si esaurisce con la procedura d’imbarco! Per la prima volta in un volo di breve durata: 1) l’aereo supera la lunghezza di un’utilitaria media macedone; 2) le mie ginocchia non si infilano tra le due vertebre sacrali di chi è seduto davanti a me; e 3) ho un monitor nel sedile di fronte! Turkish ha già rubato i nostri cuori.
Il volo va liscio come l’olio, e in poco meno di tre ore sbarchiamo a Istanbul: una gemma adagiata tra Occidente e Oriente; quella che un tempo fu Bisanzio e Costantinopoli, è ora una metropoli ricca di colori, profumi e tradizioni, dove il Bosforo segna l’incontro tra due culture totalmente differenti.
Il primo obiettivo del nostro tour in città è Ayasofia, o Santa Sofia, un’antica cattedrale cristiana divenuta poi moschea. La fila che troviamo all’esterno di questa opera d’arte è assurda, e prendiamo consapevolezza del fatto che se ci dovessimo mettere in fila ora, probabilmente riusciremmo ad entrare solo in un futuro poco definito.
Mesti mesti, ci dirigiamo verso la seconda meta: la moschea blu, che con le sue numerose cupole turchesi domina la città ed il quartiere di Sultanahmet (che a lei deve il suo nome). Chiusa per ristrutturazione. Ecco, così non va bene. Qui c’è da cambiare registro, e anche in fretta.
La Basilica Cisterna, fortunatamente, non ci schernisce come le due precedenti attrattive. Scendendo la scalinata che ci accompagna al suo interno, si percepisce subito la maestosità di questo vero e proprio palazzo sommerso. Le centinaia di volte e colonne, che paiono galleggiare sull’acqua, ci lasciano estasiati.
Usciti da lì, ci dirigiamo verso il Grand Bazar, dove ci perdiamo tra mille viottoli ed altrettante botteghe. L’atmosfera è magica. Pare di essere catapultati in un’altra epoca, distinta da un brulicare costante di persone e di commercianti impegnati a contrattare qualsiasi manufatto.
Sempre nel distretto di Fatih, ci addentriamo poi nel Bazar delle spezie. Rapiti dai colori e dai profumi che ci circondano, decidiamo di pensare a familiari ed amici per qualche regalo e – così – ci ritroviamo su Google ad allenarci a pronunciare correttamente “dragoncello”. Dopo qualche tentativo di pronuncia, ci rendiamo conto che “tarhun” ci suona anche bene, ma a stento sapremmo distinguerlo dal basilico.
Sperando di aver indovinato la spezia corretta, lasciamo il bazar e ci incamminiamo verso Balat, l’antico quartiere ebraico della città. Beviamo çay in uno dei tantissimi locali che trovano spazio in questo dedalo di colori.
Ritornati a Eminönü, saltiamo su un battello per un tour del Bosforo al calar del sole. Ci rendiamo conto che questa è una delle più classiche esperienze che si trovano su Tripadvisor nella tanto odiata categoria “Le dieci migliori attrazioni di”, ma ne vale davvero la pena. Mentre il battello si allontana dal Corno d’Oro, il sole si nasconde alle spalle di Ayasofia e della Moschea Blu, delineando il profilo di una città, che coi suoi suoni e rumori, non è ancora pronta a fermarsi.
Decidiamo di concludere la giornata a Istanbul andando a mangiare al mercato del pesce di Karaköy, dove scopriamo una rara specie ittica: lo sgombro bastardo. All’inizio ridiamo per questa infelice e sbagliata traduzione in un italiano più che maccheronico, ma una volta rientrati in hotel, ci rendiamo conto che l’aggettivo non era poi tanto inadatto dato il tanfo che ormai ha permeato irrimediabilmente i nostri vestiti.
CAPPADOCIA
Alle 7.00 in punto decidiamo di lasciare Istanbul alle nostre spalle, partendo da piazza Taksim in direzione aeroporto e auto noleggio. Il sole è ancora basso, ma la città inizia già a muoversi e l’odore di agnello si avverte già deciso in tutte le vie della zona.
Per fare il local dico a tutti che dobbiamo andare all’aeroporto di “Havalimani”, perché è l’unica chiara informazione che vedo sulla prenotazione di Auto Union. Scoprirò solo dopo che Havalimani vuol dire proprio aeroporto. Dunque, è come se stessi chiedendo a tutti due biglietti per l’aeroporto di aeroporto. Bene così. Non riesco nemmeno a concludere l’acquisto dei biglietti che un signore ha già caricato sul bus le valigie e Birzebugga. Sempre meglio.
Scesi dal bus siamo pronti a mettere in pratica le indicazioni di Auto Union per ritirare l’auto: andiamo all’uscita 9, entriamo nel P3, zona verde, area D02 e attendiamo che il van ci venga a prendere. Chiamiamo l’ufficio sentendoci come degli agenti segreti turchi in missione e ci sentiamo dire “ora uscite, scendete al piano -2 e aspettatemi al pilone 5”.
Ma cos’è? Una caccia al tesoro o un pick up dell’auto?
Fortunatamente, o sfortunatamente, questo è il momento più adrenalinico della giornata; perché, saltati a bordo della nostra Fiat Tipo, non incontriamo più niente per quattrocento chilometri. Poi, di punto in bianco, all’orizzonte compare Burj al Babas, coi suoi circa cinquecento castelli (totalmente abbandonati) che fanno capolino da dietro una collina. Il panorama è decisamente suggestivo, e fa riflettere circa gli sprechi che si compiono in giro per il mondo e a stento giungono alle nostre orecchie. Ci fermiamo giusto il tempo di qualche foto e poi di nuovo in macchina per altri cinquecento chilometri, direzione: Göreme. Non incontrare nulla per sei ore, rende ancora più spettacolare l’ingresso in Cappadocia. I camini delle fate ci danno il benvenuto illuminati dalla sola luce delle stelle.
Il primo giorno in Cappadocia inizia dalla Pidgeon Valley. L’idea è quella di attraversala in completa calma, godendoci il panorama. Sfortunatamente però, finiamo nel bel mezzo della Salomon Cappadocia Ultra Trail. Ciò può tradursi solamente in due avvenimenti: tratta Göreme – Uçhisar conclusa in diciotto minuti netti ed il CEO di Salomon che applaude Birzebugga alla conquista del primato della categoria runner con zainetto.
Facciamo un giro per il castello di Uçhisar, un po’ per ammirare la surreale vista sulla rada della Cappadocia (fino ad ora non propriamente goduta), ma soprattutto per dare margine ai vari runner, nella speranza di essere soli nell’attraversare la Love Valley. Così (chiaramente) non è. Birze decide di unirsi al gruppone e tampina la terza classificata. Vuole il podio. Si rilassa solo quando le spiego che 1) non è iscritta, 2) nello zaino ha gilet, antivento, termica e pile e non acqua e integratori come gli altri runner. Riusciamo così ad ammirare i camini delle fate della Love Valley fino a Çavušin, dove ci fermiamo a mangiare una pizza turca e bere çay. Riprendiamo il nostro cammino attraverso la Rose Valley, dove il paesaggio è decisamente surreale. Il trekking si sviluppa interamente attraverso questi rosei pinnacoli calcarei. Pare di essere su un altro pianeta ed in un attimo arriviamo al belvedere della valle, dove ci gustiamo un ottimo ayran. Il rientro in città è accompagnato dal calar del sole, che rende tutto ancora più affascinante. I camini delle fate passano dal rosa pastello al rosso fuoco e la Cappadocia, coi suoi paesaggi, ci si imprime nella testa.
Il secondo giorno in Cappadocia inizia presto, mooolto presto. Ho maglietta e pantaloncini al contrario, a stento so perché mi trovo al volante alle 6.00 del mattino, ma non vedo l’ora di vedere le mongolfiere riempire il cielo della Love Valley. Non vedo l’ora anche perché – probabilmente – ho gli occhi ancora incrostati.
Raggiungiamo il nostro punto indisturbati e lì ci sediamo, ammirando il sole sorgere e le mongolfiere alzarsi una dopo l’altra. Senza dubbio è un’esperienza assurda e che difficilmente si dimentica. Il sole caldo e rosso fuoco crea un contrasto mozzafiato con tutto ciò che, lentamente, illumina. Non sappiamo, tuttavia, se valga la pena vederla dall’alto a bordo delle numerose mongolfiere che offrono questo servizio. La vista dai numerosi viewpoint che si trovano nella valle è già incredibile e non sappiamo quanto valore possa dare stringersi con altre persone all’interno del cesto di una di quelle mongolfiere. Ci alziamo e ci rendiamo conto che per un’ora ci siamo totalmente isolati da ciò che ci circonda, nonostante sia indiscutibilmente memorabile. A poche decine di metri da noi, una ragazza in abito rosso e con uno strascico di diversi metri fa una danza decisamente poco armoniosa, mentre il marito (si presume e si spera) la riprende col telefonino (probabilmente per ricattarla al momento del divorzio). Poco più in là, una strana coppia arriva sgommando tra la folla a bordo di una BMW nera, con lo strascico del vestito di lei che svolazza tra la sabbia alzata dall’auto. All’ingresso della valle, valanghe di discutibili individui si fanno fotografare all’alba davanti alla stessa altalena, creando code chilometriche quando a pochi metri c’è tutto lo spazio del mondo per godersi in piena tranquillità questo momento di rara bellezza. Insomma, l’alba in Cappadocia è un momento indimenticabile sia da un punto di vista panoramico che sociale.
Il resto del tour di questa magica zona della Turchia si evolve tra piacevoli scoperte e cantonate memorabili. Soganli e Derinkuyu appartengono decisamente alla prima categoria. La seconda, in particolare, essendo uno dei siti archeologici più grandi al mondo, ci salva clamorosamente dal diluvio universale, mettendo ben 85 metri tra noi e l’infernale acquazzone.
Mustafapasa, Urgup  e Ilhara Valley sono tre note stonate (ad eccezione del kebab più piccante della storia dei kebab piccanti), mentre Pasabagi e Zelve – fortunatamente – ci riportano sulle ali dell’entusiasmo.
MONTE CHIMERA
Göreme e Yanartas distano circa otto ore di macchina, la stessa durata di un corso breve di educazione stradale turca. Ciò che riusciamo ad apprendere dopo tutti questi chilometri sono poche regole, ma fondamentali. 1) Se sei in motorino puoi non mettere il casco, a meno che tu non sia in contromano in tangenziale; in quel caso devi essere in due e il passeggero deve mettere il casco sul gomito. 2) Il sorpasso a destra non è lecito, è doveroso. 3) Se non suoni il clacson, sei un demente. 4) Se sotto i tutor passi a meno di 240 km/h sei un demente, ma peggio di quelli che non abusano del proprio clacson. 
Arriviamo a Yanartas al tramonto, in tempo per raggiungere le fiamme naturali del Monte Chimera al calar del sole.
Ciò che rende questo luogo davvero affascinante è un fenomeno in cui ci si imbatte a pochi metri dalla cima del monte: piccole fessure naturali da cui emergono fiamme che bruciano costantemente. Ciò che rende questo luogo meno affascinante e più reale, invece, sono i numerosi gruppi di turisti che cucinano i propri marshmallow su queste Fiamme Perpetue di gas metano (e i numerosi blog che consigliano di farlo).
PAMUKKALE e SMIRNE
Una delle ultime tappe prima del ritorno ad Istanbul è Smirne, dove ci aspetta un amico che – in compagnia della moglie – non vede l’ora di mostrarci la città in tutto il suo fascino. Per arrivarci, decidiamo di fare sosta a Pamukkale, una delle destinazioni più suggestive e (ahimè) gettonate di tutta la Turchia. Il fascino dell’immensa collina calcarea che domina la zona di Denizli si inizia a percepire ancor prima di iniziare la salita tra le sue bianche piscine. Il colore intenso del castello di cotone emerge in maniera inconfondibile da ciò che lo circonda e crea un netto contrasto con il turchese dell’acqua delle sue numerose piscine. La magia del luogo è davvero unica; solo il turismo di massa può rovinarla. E così è. In poco più di due spanne d’acqua, diversi individui provano la partenza dei cento metri stile libero; poco più in là, dive con occhiali da sole grandi come palazzi, si preparano a shooting fotografici home made con selfie-stick chilometrici e costumini così “ini” che non sappiamo nemmeno se possano essere catalogati come tali. La ciliegina sulla torta, tuttavia, è qualcosa che supera di gran lunga i vestiti con tanto di strascichi ammirati in Cappadocia… ragazze che pagano fotografi improvvisati per farsi ritrarre nelle piscine naturali di travertino con delle ali di circa due metri sulla schiena, pronte a dominare la valle sottostante.
Giunti in cima alle piscine, decidiamo di abbandonare la visita di Hierapolis, una città costruita dai greci più di duemila anni fa, e facciamo ritorno alla nostra Fiat Tipo.
Tra una clacsonata, qualche contromano in autostrada e parecchi motorini impazziti (con pilota rigorosamente senza casco), arriviamo a Smirne in circa tre ore. I coniugi Akbaba fin da subito ci mostrano i segreti e i costumi della città, e confessano che – per spostarsi – non esiste miglior modo di Formula Uno. F1 non è una hypercar o qualche strano mezzo futuristico; è un furgoncino di circa quindici anni, che a stento riesce a chiudere le portiere, guidato da un turco psico-labile con la sindrome di Alain Prost. Chi si siede è un debole e chi sta in piedi deve riuscire a non cadere fuori da Formula Uno. A Smirne, questa è la vera e sola legge della giungla.
Giunti nel centro della città, affondiamo subito i nostri denti nei segreti culinari di Smirne. Dopo una gradevole zuppa di lenticchie (mercimek çorbasi), giunge al tavolo un piatto che non pare tale; sembra più un girone dell’inferno (e in effetti ha anche le fiamme). Al suo interno ci sono kebap, kofte, dolma, borek e un insieme di altre parti di agnello che preferiamo non vengano specificate.
Per digerire la cena, camminiamo lungo la baia e ci accorgiamo della sconcertante immensità della città, che ospita più di quattro milioni di abitanti e circa un milione di migranti.
BURSA e ŠILE
Salutati i coniugi Akbaba e dichiarato ufficialmente “digerito” il girone dell’inferno culinario di Smirne, ci dirigiamo a Cumalikizik, che raggiungiamo in circa quattro ore. Il villaggio è molto caratteristico e offre particolari scorci di quella che è – ed è stata – la vita rurale turca. Decidiamo di pranzare qui prima di ripartire per Bursa, anche perché iniziamo ad accusare la stanchezza dei lunghi spostamenti. Entriamo in un locale con scritto “gozleme” a caratteri cubitali e chiediamo cosa ci sia da mangiare. La proprietaria, ovviamente, non parla inglese e nonostante una certa abilità nell’eseguire strani segni, non riesce a spiegarci il menù. Decide così di prendermi per mano e portarmi in cucina. Fortunatamente non mi mette sulla brace ma mi fa parlare con la cuoca, che almeno sa descrivere a parole quel che cucina. Finalmente, ci mangiamo due gozleme (cosa che avremmo dovuto dedurre già dall’insegna).
Risaliti in auto, in venti minuti raggiungiamo Bursa: ad oggi, l’esperienza più traumatica della nostra vita automobilistica. Il traffico è a dir poco selvaggio. I pedoni saltano in strada da ogni angolo e le macchine sfrecciano sia a destra che a sinistra. Finiamo per perderci nel bazaar in auto. Ci insultano in tre, ma gli altri quattro milioni ci ignorano totalmente. Abbandonata l’auto, decidiamo di perderci nella città… Carina eh, ma siamo eccessivamente distrutti per godercela.
Guidare in Turchia è più stressante che disinnescare una bomba. Una cosa però l’abbiamo imparata: bisogna stare attenti a tutto e guardare anche il più piccolo movimento; ma non le strisce pedonali. Lì, i turchi proprio non stanno.

Le ultime due tappe prima del rientro ad Istanbul sono Gebze e Šile.
La prima l’abbiamo individuata per un bel trekking che si sviluppa sulle rive di un fiume. Purtroppo, però, le segnavie si perdono al terzo metro di sentiero e l’infittirsi della foresta ci impedisce di capire dove andare. Cerchiamo alternative ma senza successo. Ci imbattiamo, fortunatamente, in una sorta di guardiacaccia che – tuttavia – parla solamente in turco. Gli facciamo capire che ci serve l’inglese per capire ciò che ci sta dicendo. Lui, impassibile, estrae il telefono, digita qualcosa e ci mostra la traduzione di google translate. Dal suo telefono leggiamo “can be bears in the forest” “and pig too”. Ringraziamo e torniamo alla nostra Fiat Tipo. Šile sarà la nostra ultima tappa.

Il paese è bellissimo, e la tranquillità del Mar Nero cancella l’agitazione di Gebze. Passeggiamo tra le vie del porto e sulla battigia, assaggiando l’ultimo panino con lo sgombro bastardo di questo assurdo ma bellissimo viaggio.

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